La leggenda del Cavaliere Aleramo: l’amore, la fuga e la riconciliazione

A cura di Giulia A. Cordasco

La storia de La Via Aleramica nasce proprio da una di queste leggende, quella del Cavaliere Aleramo, giunta fino a noi grazie alla testimonianza scritta del domenicano Iacopo da Acqui, di cui abbiamo pochissime informazioni, e resa immortale dal poeta Giosuè Carducci, il quale, nella sua opera Cavalleria e Umanesimo pubblicata nel 1883, racconta le origini del Monferrato e della dinastia degli Aleramici.

La leggenda ha inizio nel 904 quando, un giovane nobile tedesco e sua moglie, scrive Iacopo da Acqui, “… Arrivarono nella contea e diocesi di Acqui ove tra la Bormida e l’Orba presso a confluire nel Po sta Sezzè (NDR: l’odierno comune di Sezzadio)

… Qui la donna… Partorì un figliuol maschio bellissimo, a cui i signori del luogo tenendolo a battesimo misero il nome di Aleramo … Passato che fu un mese, i due genitori pensarono di proseguire il pellegrinaggio… E lasciarono il figlioletto con una balia… Per riprenderlo poi nel ritorno… Ma nessuno ricercò più del fanciullo.”

Il piccolo venne accolto dai padroni del Castello di Sezzadio (NDR: l’Abbazia di Santa Giustina), che lo crebbero come se fosse loro figlio e lo educarono da vero cavaliere, portandolo ad essere, fin dalla giovane età, uno dei più valorosi, coraggiosi e nobili scudieri della corte.

Nel mentre, l’imperatore Ottone I scese in Italia per sedare delle rivolte chiedendo ai suoi alleati un appoggio, richiesta che i nobili di Sezzadio accolsero, permettendo al giovane Aleramo di entrare nella corte dell’imperatore, dove nacque un tenero sentimento tra lo stesso Aleramo e la figlia di Ottone I, Adelasia. In poco tempo il loro amore divenne così profondo da spaventare i due giovani, perché Adelasia sapeva che suo padre non avrebbe mai accettato che lei sposasse un semplice scudiero. Così gli propose di fuggire lontano dalla corte per iniziare una nuova vita in un luogo lontano, e Aleramo, 

seppur inizialmente titubante, accettò, e una notte in sella rispettivamente un cavallo bianco e uno rosso scapparono attraverso gli Appennini, inseguiti dagli uomini dell’imperatore.

La leggenda continua con la difficoltosa sopravvivenza dei due innamorati nei boschi dell’entroterra ligure, nella zona che oggi è un’area naturale protetta conosciuta come Riserva naturalistica dell’Adelasia, nella valle Bormida, cui nome deriva proprio dalla giovane, fino al momento in cui l’imperatore chiese ai suoi alleati

nuovamente aiuto per fronteggiare un’altra rivolta: è qui che le strade di Ottone I e Aleramo si rincontrano. Infatti, durante una feroce battaglia, Aleramo si rese conto che i nemici avevano catturato il nipote dell’imperatore e, noncurante del pericolo, decise di spingersi fino all’accampamento in cui lo tenevano prigioniero, riuscendo a farlo liberare e a riportarlo a casa.

L’imperatore, grato per il ritorno a casa del nipote, mise da parte tutto l’astio che li aveva accompagnati durante tutti quegli anni e lo insignì del titolo di cavaliere, donandogli una balzana di colore bianco e rosso (ricordate i due cavalli…?), segno del valore e della fede di tutti i loro eredi, ma non solo: in segno di riconciliazione, Ottone I concesse al genero il titolo di marchese e tutto il territorio che sarebbe riuscito a percorrere a cavallo senza fermarsi. Aleramo cavalcò per tre giorni e tre notti, coprendo un perimetro di oltre 400 chilometri di territorio anche impervio e difficile, durante il quale il suo cavallo perse un ferro, costringendolo ad arrangiarsi come poté:  dalla sua azione e lo strumento utilizzato “Mun” (mattone) e “Frrha” (ferrare il cavallo) si dice che derivi il nome Monferrato.

Non si hanno notizie certe sulla morte di Aleramo, ma la leggenda si conclude nell’Abbazia di Grazzano, da lui fondata nel X secolo, precisamente nella cappella della Madonna del Rosario, dove è tuttora conservata la sua tomba, ornata da un prezioso frammento di mosaico rappresentante due animali mitologici che si affrontano, in un’eterna continua lotta tra il bene e il male, la vita e la morte.